PRESENTAZIONE dei libri di Antonino Ferraro

Memorie di uno dei tanti

Una vita di affetti e di studio

La mia lirica

Poesia di sentimenti e riflessioni

29/10/2014

 

 

 

INTERVENTO di Antonino Ferraro

 

 

Buonasera. Comincio col dovere ed il piacere dei ringraziamenti. Ringrazio la professoressa Maria Cristina Parise Martirano, che ha patrocinato questa presentazione, la professoressa Mariuccia Giannicola ed il professor Flavio Nimpo, che brillantemente hanno relazionato sui miei libri. Un ringraziamento va anche alla professoressa Mitidieri che mi ha fatto conoscere il professor Nimpo, il quale qualche anno fa ha presentato la mia traduzione in versi delle Bucoliche ed ora ha accettato volentieri l’invito a presentare anche questi due libri. Ringrazio anche i giovani lettori e voi, che avete voluto onorarci con la vostra presenza. Parlerò ora dei miei libri, prima di quello in prosa, poi dell’altro. Nel titolo dell’autobiografia mi sono definito “uno dei tanti”. Non vi si deve vedere, voglio chiarirlo, né falsa modestia né eccesso di umiltà. Mi riconosco, infatti, non uno qualsiasi della moltitudine, che comprende persone di ogni specie, anche ignoranti e falsi dotti, ma un professionista normale, comune, abbastanza preparato per un liceo, ma non all’altezza dei suoi maestri, conosciuti o personalmente o attraverso i loro scritti, uno, cioè, il quale ritiene che, se avesse accettato l’incarico offertogli di assistente universitario, sarebbe stato più appagato, e non per aver soddisfatto l’ambizione, sia pure onesta e legittima, di diventare docente negli atenei, ma perché avrebbe portato qualche contributo, anche piccolo, al progresso degli studi letterari classici. Ritiene. Poi, forse, avrebbe deluso se stesso.

L’idea di scrivere un libro sulla mia vita non mi venne all’improvviso. Avevo pensato, prima, di narrare la favolosa storia dell’ amore tra me e mia moglie, nato quando eravamo studenti liceali, per fare a lei il regalo che più avrebbe gradito, poi il progetto si estese. Avrei composto un’autobiografia, dove il capitolo di quella storia sarebbe stato il gioiello più prezioso. Il libro fu scritto e completato con un criterio narrativo continuo. Poi poco prima dell’invio per la pubblicazione, per consiglio e con l’aiuto di mio figlio fu fatta la divisione in capitoli. Non è difficile notare la tardività di questo utile accorgimento, fatto non secondo un piano originario.Strutturalmente l’opera si può considerare divisa in due parti. La prima comprende il periodo che arriva alla fine della mia attività professionale, l’altra si sofferma su vari argomenti, come il problema Dio, la politica, l’analisi di me, ecc…, e si conclude con la fine di mia moglie ed un augurio ai figli. È in questa parte, specialmente verso la fine, che si avverte maggiormente la fretta e il disordine.

La narrazione abbraccia tutta una vita, svolta in tempi tristi anche per tutti, come la guerra, e migliori, attorno a due motivi fondamentali, gli affetti e lo studio, come ben dice il sottotitolo, gli uni intensi, l’altro amato e coltivato come il più bel mezzo che possa renderci sempre meno imperfetti, educare l’indole, raffinare il sentire, rafforzare il pensare, aiutarci a trovare un significato alla vita, nostra e del mondo, saziare la continua sete che abbiamo di conoscere. È stata, la mia, una vita semplice ma verace, senza desiderio di onori e ricchezza, senza amore per le luci della ribalta, vissuta sempre in vista di mete ideali. Il tono del raccontare è nostalgico, verso la fine angoscioso. Ho narrato i ricordi più significativi. A parte qualche eccezione, non ho voluto indicare i nomi delle persone. Musa, infine, è stata l’assoluta verità, che mi ha fatto citare di me pregi e difetti. Un amico ha osservato che in un capitolo, quello che riguarda i politici,  sono stato troppo prolisso ed astioso, poco sereno. Forse sarà vero, ma mi consolo al pensiero che l’imperfezione è certo in buona compagnia, non è l’unica. Chissà quante altre, volutamente trascurate dai bravissimi presentatori, troveranno i lettori. Ma, si sa, non si ha mai il consenso di tutti, né dei critici né dei lettori comuni. Ognuno legge con la sua lente e con la lente dei tempi. Mi piacerebbe, tuttavia, che il mio libro fosse di gradevole lettura, con indulgenza per le cose che potevano esser dette meglio e che, comunque, non piacciono. Non ho scritto con facilità. Non scrivo mai con facilità. Beato chi è capace di scrivere un libro al mese. Come si spiega il mio continuo correggere, fino a trovare la forma più giusta? Tento, ma con una teoria, non ho altro dinanzi al mistero della mente. Eccola. Tutto ciò che la nostra mente produce, idee sentimenti fantasie immaginazioni ecc…, lo avverte con immediatezza intuitiva, cogliendolo in tutta la sua completezza, col lampo della sua visione, ma quando lo deve portar fuori per materializzarlo con la parola, specialmente scritta, quel che ha dentro utilizza come modello, che riproduce dandogli corpo e figura. Ed è molto esigente con se stessa nel riprodurre con la massima somiglianza. A questi modelli accenno nel libro. Non tutti, naturalmente, fanno la stessa fatica in questo lavoro di riproduzione.

Passo ora alle liriche. Faccio una premessa. La poesia realizza il bello. Questo è il suo unico fine. Cercherò di spiegare brevemente come esso si riconosce in un’opera poetica. Non sempre i critici sono dello stesso parere, anzi non è raro che diano anche giudizi contrastanti. Spesso passa molto tempo, prima che ci sia una critica più o meno concorde. I lettori comuni hanno bisogno del lavoro esegetico dei critici per capire, quando si tratta di opere complesse e difficili, ma non tutti si lasciano influenzare dai loro giudizi estetici. Questa diversità c’è, tra i critici, perché ognuno ha la sua formazione culturale e la sua sensibilità, tra gli altri perché ognuno ha i suoi gusti, la sua percezione del bello. Anche il tono culturale dei tempi ha la sua importanza. Prendete, per es., Dante, poeta sommo, uno dei più elevati e completi di tutti i tempi. Per la cultura umanistica non fu considerato “poeta da sartori e calzolari”? Il bello poi, di natura e di arte, si presenta in diversissimi aspetti. C’è, da una parte, la bellezza di un tramonto, del canto dell’usignolo, di un paesaggio, di un fiore, ecc..., dall’altra, quella di poesie che trattano motivi semplici, o di una tragedia, o di un poema, con temi grandiosi, ecc... Non è infrequente ascoltare la frase: “Il bello è ciò che piace”. Il relativismo di questa definizione non mi è piaciuto in passato, ma ora che son vecchio non mi pare che essa non possa essere presa in qualche considerazione. Tuttavia, bisogna riconoscere che una percezione comune del bello, di natura e d’arte, con tutte le differenziazioni individuali possibili, ci deve essere, c’è, sicuramente. Quello che ho detto riguarda l’aspetto valutativo di chi legge. Quanto ai poeti, ognuno ha il suo modo di creare la poesia. Io ho sempre avuto particolare attenzione per i poeti. Tra questi ho preferito i lirici, perché più consoni con la mia sensibilità, anche se mi sono inchinato con riverente timore all’altezza dei tragici. Ho cominciato a scrivere versi da giovane, ma erano esercitazioni, lavoretti, alcuni dei quali sono andati perduti, altri non ho ritenuto opportuno che fossero inclusi in La mia lirica. Fu all’inizio degli studi liceali che appresi quella nozione sul fine dell’arte di cui ho parlato sopra e, insieme, quello che non spetta all’arte, cioè, fra l’altro, la ricerca della verità e la funzione moralizzatrice. Così cominciò l’educazione del mio gusto e del mio senso critico. E non mi fu difficile, ampliando e approfondendo le letture poetiche e le conoscenze negli studi successivi, distinguere la poesia dalla non poesia, sentire nei vari componimenti poetici una diversa bellezza, una diversa qualità, un diverso peso, farmi una poetica e scrivere anch’io qualcosa. Per me, qualunque contenuto può essere trattato dal poeta, anche un pensiero, una riflessione, perfino una dottrina filosofica. La differenza è nel fine e, soprattutto, nel modo in cui è elaborato il contenuto. Prendo come esempio la diversità tra il filosofo Epicuro ed il poeta Lucrezio. Nel primo vedete il rigore del ragionare e la serenità, nel secondo la dottrina metabolizzata in bellissime immagini e, a mio avviso, un’inquietudine non del tutto placata, che si avverte proprio nel persistente canto della felicità raggiunta. Come le api trasformano in dolcissimo miele il nettare dei fiori, così il poeta elabora il contenuto in modo che esso, senza che ne sia alterato il valore semantico, trovi la sua veste più bella. La veste è la parola sapientemente usata, con la scelta dei giusti sinonimi, sapientemente combinati così da formare immagini armoniose che carezzano la sfera sensoriale, oltre a soddisfare la facoltà deputata alla comprensione. La poesia è armonia di suoni. Ed è anche pittura: sentite il carducciano “roseo il tramonto nell’azzurro sfuma”. Ed è anche scultura: quando leggo il dantesco “dalla cintola in su tutto il vedrai”, mi par di vedere un bronzo di Riace. Il poeta deve avere indole e scuola, cioè, da una parte, cuore, fantasia, sincerità, sensibilità eufonica, dall’altra, cultura, buona conoscenza della lingua che, fra l’altro, consente la giusta scelta dei sinonimi, utilissima per l’armonia dei ritmi, che non necessariamente sono quelli della tradizione metrica, possono essere anche liberi. E soprattutto deve avere ispirazione, Platone parlava di divina ispirazione, ma si riferiva ad opere infinitamente più grandi di quelle dei nostri tempi. Il poeta infine non deve scrivere sotto la spinta di forti emozioni, che deve lasciare decantare, se non vuole rischiare di trasformare il dolore che morde dentro in grido straziante, sgradevole all’orecchio e al cuore di chi ascolta, la gioia, in sfrenata allegria che non piace. Ho detto  l’indispensabile, ma credo che basti. La mia lirica non è di ampio respiro come quelle di lirici impegnati totalmente nel comporre. I motivi non sono molti, ma alcuni sono comuni alla totalità degli uomini, altri esclusivamente miei. In alcune delle ultime poesie del dolore il rischio è che il grido del sentimento non sia stato abbastanza placato nella serenità del canto. In un giudizio critico su alcuni miei versi, apparso su Internet si diceva che c’era, riporto testualmente, “un’intensa frequentazione con il carme, con la poesia classica eppure una propria originalità nella scelta dei temi per lo più (nell’anteprima) minimali e fondamentali ad un tempo”. Evidentemente, in poesia, anche i temi minimali possono essere fondamentali, anche i temi minimali possono essere belli. Bella l’aquila maestosa, signora dei cieli, bella la delicata farfalla che ondeggia leggera nell’aria.